In questo scritto mi sono posto l’obbiettivo di riflettere sulle parole della pandemia. Di come sono utilizzate e quale mondo construiscono attorno a noi. In quanto atto del pensiero è un tentativo di dare forma ad una possibile verità, senza alcuna presunzione di immaginare che la indichi. In pratica è un percorso di ricerca sul quale come ogni amante della scienza e della verità preferisco siano evidenziate le falle del mio ragionamento, per andare ancora un po’ oltre.
Puoi pensare qualunque cosa, ma senza le parole quel pensiero resta solo per te. Le parole sono, quindi, non solo parole. Pavese scriveva: «Le parole sono sangue ed il sangue non si lava». Ed ancora oltre, le parole ci fanno uomini più di qualunque altra competenza. L’uomo usa il linguaggio e la parola per dare corpo alla storia ed alla narrazione. Le parole costruiscono, dunque, il mondo intorno a noi, lo raccontano e lo tramandano.
Victor Klemperer ed il linguaggio del Terzo Reich
Victor Klemperer è un filologo tedesco, vissuto durante il Terzo Reich, sopravvissuto all’Olocausto solo perché sposato con una donna ariana. Ha vissuto da ebreo in Germania. In un interessantissimo diario ha appuntato e riflettuto sull’uso delle parole nel regime nazista. In questo prezioso documento (“LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo”, Giuntina, 1998) Kemplerer analizza e studia alcuni elementi chiave dell’uso del linguaggio durante il Nazismo, la necessità della semplificazione, ma anche la pratica della risemantizzazione delle parole. Lui fa l’esempio della parola «fanatico», che ha in origine (ed ancora oggi) un significato negativo, ma che durante il nazismo viene connotata positivamente: i fanatici obbediscono, agiscono, rispettano le regole del sistema. «Sistema» è un’altra parola chiave, e l’appartenenza al sistema è un titolo di merito irrinunciabile.
Oltre ai contenuti, Kemplerer evidenzia quanto sia importante la struttura del linguaggio. Ridotto all’essenziale, il linguaggio nazista propone in modo ossessivo parole e frasi, come il termine «storico»: tutto quanto realizza il potere in Germania nel periodo nazista è sempre definito storico dal regime.
Aldo Nove, in una recensione del libro, evidenziava come rabbia, demagogia e identificazione di un capro espiatorio fossero la struttura attorno alla quale era costruito il linguaggio e la società che Klemperer narrava.
Ho citato Klemperer non perché intenda evocare parallelismi tra regime nazista e democrazia dei tempi moderni, ma perché credo che il tema della rideterminazione semantica delle parole sia attuale, e sia utile guardare quando è stato usato e con che finalità. Le parole infatti, definendo il mondo, stabiliscono chiaramente lo spazio nel quale possiamo muoverci e quindi il modo in cui decidiamo di usarle definisce certamente l’idea di mondo che desideriamo attorno a noi.
Verità e Notizia secondo Walter Lippman
Ho pensato pertanto di proporre un viaggio ragionato nelle parole della «pandemia» (una di queste parole), perché queste parole oggi hanno costruito un mondo nuovo attorno a noi. Un mondo che abitiamo ormai da un tempo molto lungo ed al quale ci stiamo progressivamente abituando. Un mondo che è destinato, io temo, a perdurare se non capiamo quali sono ed a cosa servono le parole che lo costruiscono.
Ritengo utile allo scopo proporre in forma di premessa una riflessione di Walter Lippman sulla relazione tra verità e notizia. La riflessione sarà utile nel corso del mio intervento.
Lippman è politico americano, considerato uno dei riferimenti nella comunicazione pubblica. Nel suo libro (“L’Opinione Pubblica”, Roma, Donzelli editore, 1999) l’autore invita a considerare le notizie e la verità due cose distinte. Le notizie hanno il compito di segnalare un fatto, il compito della verità è quello di portare alla luce i fatti nascosti, le interrelazioni alle cose non note.
Lippman fa un esempio chiarificatore: Lenin è morto, il fatto viene comunicato da Helsinky, una fonte che molte volte si è dimostrata inattendibile. Il fatto in questo caso non è che Lenin è morto, ma che Helsinky sostiene che Lenin lo sia. Nel dare corpo alla notizia, il giornale, il suo direttore, hanno il compito di dare le informazioni necessarie perché la verità possa prendere forma. Tolto il nucleo della notizia, il giornalista ha modo e ruolo di argomentare come crede nel suo percorso di orientamento alla verità, non esiste un sistema certo a cui riferirsi. In termini di struttura, pertanto, si compie qui il ruolo del direttore responsabile nel separare in modo netto il fatto, la notizia, dalla verità. Perché il primo è certo. La seconda non lo è. Quale sia la verità resta parte del processo da attualizzare per interpretare il mondo.
Le parole della pandemia in forma di glossario
«Distanziamento sociale»
Ossimoro estremamente efficace. Il verbo unico della pandemia è stato la parcellizzazione e la separazione delle persone. In difesa della «vita nuda» – fantastica locuzione di Agamben che mostra più di quanto dice – ci siamo chiusi in casa, abbiamo smesso si stringerci, abbracciarci, toccarci. La stessa vicinanza fisica oggi è percepita come una violazione grave dello spazio dell’altro. Ho assistito varie volte a conflitti nelle code dei supermercati tra persone che invitavano alla distanza, che sottolineavano con fastidio quando la mascherina del vicino fosse fuori posto. La presenza dell’altro genera irascibilità. Fino ad oggi distanziarsi, isolarsi, stare chiusi a casa, non toccarsi, coprirsi i il volto mentre parli con un altro sarebbero stati considerati comportamenti antisociali. Il distanziamento ai tempi del Covid-19 è dunque sociale. Non è patologico. Ovvero le parole usate cancellano la patologia dei nostri comportamenti. La parola distanziamento risemantizzata in chiave positiva ci fa accettare, quasi inseguire, un comportamento che solo nel 2019 sarebbe stato considerato patologico. Ci distanziamo asocialmente, e nascondiamo la nostra paura alimentata da una comunicazione ossessiva e terrifica dietro l’ipocrita affermazione che lo facciamo per proteggere l’altro, non noi stessi. Il distanziamento sociale come mantra in difesa dell’altro ha aperto anche la via alla delazione, segnalare gli altri che violano questa norma è considerato un atto civico.
«Assembramento»
È il controcanto del distanziamento. Assembramento è tecnicamente una moltitudine di persone che si accalca, ammassa, in modo disordinato, generalmente per manifestare, protestare. Ha da sempre una connotazione non positiva. In questo caso la parola viene usata per connotare qualunque episodio nel quale individui non applicano il distanziamento sociale. Si è parlato pertanto di assembramento davanti un negozio, o il famoso assembramento sui navigli di Milano, assembramenti nelle spiagge o per le strade. Un normale comportamento umano e sociale viene riconfigurato con l’uso di una parola usata in un contesto non esatto. Oggi nel linguaggio comune assembramento è qualunque insieme di persone che sta ravvicinata con e senza mascherina. Nell’immaginario, chi si assembra commette un crimine ai danni della società. Stare con qualche altro oggi è assembrarsi. Assembrarsi è male. Faccio notare che nel divieto di stare insieme matura anche l’impossibilità di confrontarsi e ragionare con altri su cosa sta accadendo attorno a noi, e di fatto è esclusa l’ipotesi stessa della protesta. La riuscita di una manifestazione, infatti, si misurava tradizionalmente in piazza in termini di numero di persone che avevano aderito. Oggi, maggiore il successo, maggiore assembramento, maggiori irresponsabilità etiche e morali di chi protesta. Il successo diventa quindi una colpa grave.
«Lockdown»
Lockdown è una parola di nuovo conio, Kemplerer faceva notare nel lessico nazista il ricorso a parole Inglesi e straniere. Il motivo è, in tutta evidenza, che prendere parole a prestito consente di connotarle nel modo in cui credi. La traduzione letterale sarebbe “blocco” o “isolamento”. È una parola utilizzata in Italia nel periodo del primo blocco totale e assoluto del paese avvenuto tra marzo e maggio 2020. Serviva una parola nuova, per non chiamare quello che stava accadendo per quello che era: coprifuoco totale, come neanche durante la seconda guerra mondiale. La parola è stata addolcita con altre espressioni guida #iorestoacasa, lasciando quindi intendere che il lockdwon fosse un atto volontario. E #andràtuttobene. Una promessa necessaria quando prendi milioni di persone e le chiudi a casa a tempo indeterminato. Da notare come la parola sia stata poi di fatto abbandonata. Il motivo è semplice, la parola è stata fortemente vissuta ed oggi sappiamo, per averlo vissuto pienamente ed intensamente, che lockdown è rimanere chiuso a casa senza lavorare, senza vedere nessuno, senza il diritto a fare una passeggiata, prendere il sole da soli al centro di una spiaggia deserta, e senza il diritto neanche ad arrostire della salsiccia sul terrazzo di casa. Non è andata affatto bene, e #iorestoacasa viene oggi contrastato da parole oppositive come #ioapro. Lockdown aveva svolto il suo ruolo, la chiusura forzata ed irrazionale di tutto e tutti aveva bisogno di una nuova parola. Abbandonato al suo destino lockdown, la nuova parola adesso è «Zona Rossa». La parola evoca pericolo. Viene spostato il baricentro tra quello che subisci (lockdown, chiusura) a cosa può accaderti (rosso, pericolo). La zona rossa, in ragione della sua cromatica reversibilità e della sua geometria, viene percepita meno violenta, fa paura ma la viviamo come transitoria, accettiamo più accondiscendenti il suo uso, perché serve a proteggerci da un pericolo. Vi invito a notare quanto sia identica, nella sostanza ultima, a lockdown. Il semplice cambio di nome ha però consentito di riproporre un lockdown, che se chiamato tale non sarebbe stato accettato dalla popolazione.
«Mascherina di comunità»
“Le mascherine di comunità hanno lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana e non sono soggette a particolari certificazioni. Non devono essere considerate né dispositivi medici, né dispositivi di protezione individuale, ma una misura igienica utile a ridurre la diffusione del virus SARS-COV-2”. Questa descrizione è riportata sul sito AIFA, l’agenzia italiana del farmaco. La descrizione è affascinante perché dice quello che le mascherine non sono. Ma non dice quello che sono. Eppure l’obbligo di mascherina, che è una norma igienica, come lavarsi le mani è gestito dalle forze dell’ordine. L’AIFA tiene a distinguere la Mascherine di comunità dalle chirurgiche che “sono le mascherine a uso medico, sviluppate per essere utilizzate in ambiente sanitario e certificate in base alla loro capacità di filtraggio. Rispondono alle caratteristiche richieste dalla norma UNI EN ISO 14683-2019 e funzionano impedendo la trasmissione.” Il motivo è chiaro, le mascherine chirurgiche sono monouso: tutti abbiamo visto film nei quali solerti infermiere mettono ma mascherina al medico, per evitare siano contaminate, finito l’uso durante una operazione la mascherina viene gettata via. Se indossi due volte una mascherina chirurgica, anche degli idioti, quindi noi, avrebbero capito che non era più sterile né utile. Allora se indossi due volte una mascherina chirurgica questa diventa come logica vorrebbe, non un oggetto altamente pericoloso e ricettacolo di batteri e virus, ma una «mascherina di comunità». La mascherina di comunità non è una mascherina chirurgica, non è un dispositivo medico, né un dispositivo di protezione individuale, non deve rispettare alcun parametro di filtraggio. È una misura igienica. Serve a fermare la circolazione del virus, e per farlo non serve nessuna particolare certificazione. In pratica mettiamo una benda davanti al volto, che ci rende irriconoscibili, ma lo facciamo per proteggere gli altri. L’uso di distanziamento sociale e mascherina di comunità consentono che si possa compiere la nostra socialità, entro le ore 22.00. Una socialità ammessa se distanziati e con un bavaglio. Ma è un bavaglio buono, un bavaglio che nei fatti nega lo stare insieme e la comunità. Ma lo chiamiamo mascherina di comunità e questo lo rende più dolce. Appare chiaro che gli architetti del lessico pandemico amano gli ossimori.
La parola che non c’è: «delazione di comunità»
Una parola che non c’è, e credo perchè si è resa inutile dalla naturale accondiscendenza delatoria dell’essere umano, è «delazione di comunità» o «delazione sociale». Si è diffusa la pratica di denunciare alle autorità i soggetti che praticano l’antisociale assembramento. La pratica è molto autogratificante, al punto che ho visto politici rendere noto a mezzo comunicato stampa le proprie pratiche delatorie, spesso a danno di ragazzini che giocavano a calcio, o amici che bevevano una birra. Chi accusa l’altro del mancato rispetto delle regole alle autorità è un grande difensore del bene comune, questo lo assolve agli occhi della maggioranza dal fatto che a ben guardare erano ragazzini che giocavano a calcio, o amici che bevevano una birra. Io credo che non sia stato necessario coniare un termine positivo per una pratica cosi odiosa perché la spinta delatoria nella popolazione si è automotivata ed autogenerata, forse coltivata da anni di abitudine a segnalare questo o quel post sgradito sui social.
«Asintomatico»
L’asintomatico è quel soggetto che, pur essendo affetto dalla malattia, non presenta alcun sintomo apparente. Insomma sta bene. Sugli asintomatici si è scritto di tutto. In alcune aree sottoposti a tamponi a tappeto si è rilevato che fino all’80% delle popolazione risulta asintomatica. I dati del contagio sono chiari: il 98% della popolazione non è colpito dal Covid. Asintomatico in fin dei conti è un soggetto che attraversa la malattia senza gli effetti negativi. In parole semplici, batte il virus con il suo sistema immunitario senza bisogno di aiuti esterni. Asintomatico pertanto è un soggetto sano, in salute, che può contagiare il virus. Ma se l’incidenza degli asintomatici è molto alta significa che il virus può venire sconfitto dai sistemi immunitari nella grande maggioranza dei casi. Asintomatico significa che non muore se ha il virus. Percentuali altissime di asintomatici significa che come popolazione abbiamo una naturale immunità di gregge (altra locuzione che andrebbe approfondita). Asintomatico è invece oggi una specie di untore da scovare. Scoprirsi asintomatico è grave e pericoloso. La caccia agli asintomatici è diventata uno dei mantra negativi che ha focalizzato l’attenzione e le paure diffuse, invece di accendere gli entusiasmi. Ciascuno di noi potrebbe essere asintomatico, un elemento in più per vivere preoccupati la nostra socialità.
Neologismi e parole straniere
Esistono poi una serie di neologismi, parole straniere, acronimi nati sotto l’onda Covid-19, che spiegano, sdoganano, approvano, giustificano insoliti e per certi versi surreali cambi di comportamento: «DAD» (didattica a distanza) ha riconfigurato il senso della scuola; «spillover» per enfatizzare l’eccezionalità di un virus che è diverso da tutti quelli precedenti e giustificare le nostre paure; «droplet» a difesa dell’utilità delle mascherine di comunità; «contact tracing» per celebrare la fine finanche della libertà di fare una passeggiata senza che il mondo intero sappia dove ti sei fermato a fare la pipì; «dispnea» a colorire di ulteriore gravità questa malattia da spillover, che si trasmette con il droplet, ma che possiamo sconfiggere con il contact tracing e con la DAD.
«Infodemia»
Prima di passare alla grande triade, spendo due parole sul neologismo infodemia, del quale presto sono certo sentiremo parlare sempre più. L’infodemia è il grande male del nostro tempo. Ogni informazione che non sia accuratamente vagliata e controllata dalla Scienza, da un organismo preposto, sottopone le nostre fragili menti a confusione. Se abbiamo tante opinioni diverse e dobbiamo scegliere quella che ci pare più credibile, possiamo confonderci e magari scegliere quella sbagliata, anche se tutti conoscono l’opinione giusta, il rischio c’è sempre. Ma se noi abbiamo un’opinione diversa da quella approvata, non è colpa nostra. È colpa di questa malattia che affligge i tempi moderni. Curiamola. Se abbiamo molta scelta e ci confondiamo e sbagliamo, è umano, tristemente umano. La malattia si chiama infodemia. Ma la stanno curando. Come sa bene chiunque abbia provato a condividere sui social articoli favorevoli all’ivermectina, alle cure domiciliari, o che abbia espresso, sopratutto prima delle tante morti di questi giorni, perplessità sulla sicurezza dei vaccini. Lo sa bene Trump, un presidente negazionista che ha gravemente contribuito all’infodemia, ed a cui hanno dovuto chiudere il profilo twitter per impedire che continuasse a confondere le persone invece di farle concentrare, come loro dovere, sull’immunità di gregge.
Gustave Le bon e la Psicologia delle Folle
Gustave Le bon nel suo “Psicologia delle Folle” (Longanesi, 1970), un libro di fine Ottocento di cui consiglio la lettura, spiega come le folle si controllino da parte del leader con affermazioni che non hanno alcun bisogno di dimostrazione. Il gioco funziona finchè non circolano affermazioni diverse, magari anche argomentate. Questo immobilizza le folle, e crea crepe nel credo cieco verso il leader.
Se voi foste il pilota che deve governare una folla, impedendole di ascoltare qualunque pensiero divergente, non pensereste che pensieri ed affermazioni altre dalle vostre siano pericolose malattie?
La grande triade: Populismo, Negazionismo, Complottismo
«Populismo»
Riporta il vocabolario treccani: Populismo: “Movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra l’ultimo quarto del sec. 19° e gli inizî del sec. 20°; si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria (culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II), un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba, e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale.” Sempre treccani riporta questo significato estensivo: “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi.”
In pratica la parola fa riferimento ad un progetto politico, probabilmente velleitario, di stampo socialista, che di fatto si oppone ai modelli della società industriale occidentale. Nel significato estensivo, l’esaltare il popolo è un atto demagogico e velleitario, e nei nostri tempi rappresentare i bisogni del popolo, ovvero della maggioranza, a discapito delle élite, e di quel ceto medio che è ancora illuso di non essere popolo e si crede élite, ha una connotazione fortemente negativa.
A questo proposito, faccio notare, anche se non è oggetto di questo articolo, che in questo cambio di significato in Italia i partiti che sarebbero ispirati alle istanze del lavoro e quindi del popolo, la sinistra, irridono e deridono i soggetti che oggi incarnano (nel bene o nel male) le istanze del popolo. Essere populista è pertanto sbagliato. La domanda che sorgerebbe spontanea da qualcuno affetto da infodemia sarebbe: perché? Perché incarnare le istanze della maggioranza, quindi del popolo, deve avere una connotazione negativa?
«Negazionismo»
I negazionisti per eccellenza sono coloro che negano sia avvenuto l’Olocausto. Se affermate in pubblico che il virus del Covid-19 uccide una percentuale molto piccola della popolazione, inferiore ad un’influenza. O se sostenete che il Covid si può affrontare con le cure domiciliari. Siete negazionisti. Ma non state negando nulla. State solo proponendo una diversa lettura delle notizie. Magari le vostre sono affermazioni sbagliate. Ma non sono una negazione. Ma chi ha voglia di argomentare in modo personale, se il rischio è essere associato a gente che nega sia avvenuto uno dei più grandi stermini di massa della storia dell’umanità? Di fatto oggi è additato come negazionista chiunque abbia un approccio divergente rispetto al pensiero sostenuto dai grandi media e dalla politica di governo. La mascherina ti fa respirare troppa anidride carbonica o ti da fastidio al naso? Pensi che il Covid-19 si possa curare con la vitamina C, D ed antinfiammatori come sostengono centinai di medici? Preferisci non vaccinarti in attesa di verificare la pericolosità del vaccino? Non conosci nessuno morto da Covid-19, mentre conosci molta gente morta di tumore? Il problema è che a causa di infodemia sei diventato negazionista. Negazionista oggi non è più chi nega qualcosa ma chi non afferma e ripete quanto è considerato opportuno appermare (l’apologia del “politicamente corretto”).
«Complottismo»
È, io credo, la parola più piena e forte di questo neologismo pandemico. Se la verità e le notizie sono due cose diverse. Se le notizie sono tasselli, che vanno interpretati ed interpolati per capire cosa c’è sotto, la verità, il processo di incrociare questi dati e queste informazioni è la ricerca della verità. Qualunque ricerca può fallire. E nella ricerca della verità molte cose sbagliate posso essere dette e fatte. Ma la ricerca della verità, il processo, non può essere messo in discussione.
Gandhi diceva che ha incontrato la non violenza sulla strada della Verità. Ma che se fosse stato necessario lasciare la non violenza per rimanere sulla strada della Verità l’avrebbe fatto.
Immaginate i tanti errori commessi da vostro figlio per arrivare alla soluzione di un problema. Fermereste il processo per impedirgli di dare risultati sbagliati o lo sosterreste perché solo la ricerca della soluzione potrà condurlo ad una soluzione?
Nei tempi moderni chi prova ad interpolare i dati, le notizie, e dare loro una forma diversa da quella precostituita, non cerca la verità (anche non trovandola) è un complottista. In questo modo ogni schema di gioco altro viene per definizione delegittimato, in un unico calderone amorfo che mette insieme tutto ed il contrario di tutto. Complottista è una parola molto potente per fermare il pensiero divergente. Credo sia la parola più potente perché scalabile ed adattabile a qualunque contesto.
Parole ancora parole
Altre parole importanti: «tampone», «pandemia», «variante». Ciascuna ha una funzione ed un posto in questo lessico pandemico. Scoperto il gioco, potrete divertirvi da soli a capire in che modo l’uso strumentale, modificato, ampliato è funzionale a disegnare un mondo nuovo.
Manca ancora all’appello la più importante delle parole: «scienza». Massimo Zito su questo blog, ha dedicato un intero articolo a questo tema usando la parola «scientismo», per spiegare il senso di quello che viene fatto ed attribuito alla parola scienza. Qui a me interessa esplorare il ruolo apotropaico attribuito alla parola, non tanto rispetto al Covid. Perché io credo che la Scienza non sia stata chiamata a curare il Covid-19, se pensiamo che addirittura le è stato impedito di effettuare le autopsie ad inizio pandemia. La scienza è stata evocata (nella sua deriva scientista, per riprendere la determinazione semantica di Massimo Zito) per curarci dall’infodemia: da quel “tarlo, mai sincero che chiamano pensiero”. Per fare questo, ha dovuto liberarsi dei suoi assunti costruttivi: la necessità di generare dubbi e non certezze. La scienza dei nostri tempi riproduce se stessa in certezze inconfutabili ed inossidabili.
Sosteneva Albert Einstein, che oggi sarebbe probabilmente definito negazionista: «nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato», è il principio poi chiamato da Karl Popper “principio di falsicabilità”. La ricerca scientifica, per Popper ed Einstein, non è nella direzione di trovare la conferma alla mia teoria, ma l’esperimento che possa sconfessarla. Riuscite ad immaginare uno qualunque dei professoroni di prima serata in posizione di ascolto rispetto ad una qualunque prospettiva che falsifichi le loro tesi?
Anche volendo, non potrebbero farlo. Perché non sono scienziati, ma profeti. E come spiegava Le Bon, sono profeti di un sistema di potere (qualunque esso sia) che procede per affermazioni inconfutabili e rassicuranti.
Nel Nazismo, l’aggettivo “storico” serviva a mettere oltre il tempo quanto stava accadendo. Una cosa storica è importante al punto che ne serbiamo memoria dai tempi passati, ed è indiscutibile, perché accaduta. Il lessico nazista storicizzava e cristallizzava il presente.
Al nostro tempo presente la parola ricorsiva è «scientifico». E chi è fuori dallo schema di gioco della scienza (dello scientismo, direbbe Massimo) non ha titolo di parola, è ascientifico o, se vogliamo, negazionista. La Scienza di questa nuova semantica cristallizza la realtà, nel definirla la rende immutabile, è pertanto una cosa diversa ed infinitamente distante dalla scienza umile di cui parlano Popper e Einstein, che esiste nella misura in cui ricerca l’errore della tesi e non la sua ossessiva conferma. L’ossessiva ripetizione di una parola ed una tesi appartiene al potere per la gestione delle masse (Le Bon), non alla scienza.
Il Nazismo, ha rilevato Viktor Klemperer nel già citato saggio, si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.
Non preoccupatevi. «Andrà tutto bene».